Vive le Maroc!

Possano gioire di questa vincita tutta la forza lavoro di uomini e donne marocchine che insieme ad altri migranti sono la base di questo paese, lavorando come pochi ai mercati, nelle fabbriche, curando i vecchi.

Tutta la gioia di stasera nel vedere una squadra di cui, diciamo la verità, nessuno si aspettava nulla possa dare un motivo di andare avanti a tutti i marocchini che lasciano il loro paese, la loro famiglia per imbarcarsi e tentare fortuna in Europa, talvolta lasciando la proprio vita in fondo al Mediterraneo.

Beninteso, chi ha deciso di boicottare il campionato mondiale di calcio perché il Qatar è tutt’altro che buon esempio in materia di diritti umani, ha ragione!

Ma non togliete il calcio ai paesi del sud del mondo, vi prego. Noi magari non abbiamo niente da mangiare ma un pallone lo trovi sempre, perché sono solo queste le nostro gioie, le nostre vittorie.

Lo sappiamo, il Marocco sarà ancora domani un paese povero ma oggi no. I paesi poveri come il mio, il Messico, sono perennemente circondati da sciagure che i bianchi benestanti del mondo occidentale non osano nemmeno immaginare. La morte e la povertà è parte intrinseca della nostra vita quotidiana. Ed è allora che prendi una barca sgangherata e attraversi il mare sapendo che molto probabilmente morirai.

E’ meglio provarci perché magari arrivi in Italia e poi vai in Germania, in Francia e fai i documenti e lavori e ti compri la macchina e i tuoi bambini andranno a una buona scuola ed a agosto tornerai trionfante con la volvo nuova con la targa del Belgio. Forse.

La verità è che pochissimi ce la fanno.

La vincita della squadra marocchina di oggi rappresenta uno spiraglio di entusiasmo nella vita di un migrante, quindi possano gioire tutti i marocchini che vivono in Francia , Germania, Belgio, Italia.

Possano gioire tutti i marocchini che vivono in Marocco nonostante il Re. Tutte le marocchine, che poche volte ho visto donne così agguerrite come loro, così orgogliose e piene di coraggio.

Possano gioire tutti i bambini come i miei che nonostante siano nati in Italia, l’unico passaporto che hanno mai visto è quello marocchino. Oggi è la giornata giusta per tirarlo fuori e mostrarlo al mondo.

So bene che tante persone rifiutano queste emozioni banali, scontate. Una partita di calcio!

E’ proprio in una partita di calcio che ogni tanto i paesi poveri possono battere le potenze mondiali e quando succede, godiamo come un riccio.

Mabrouk Leoni dell’Atlante!

Sperando la prossima partita sia contro la Francia, che un po’ di conti da regolare coi francesi forse ci sono.

Chiedere permesso

Anche se può sembrare inaspettato, la relazione più lunga che abbia mai avuto con un uomo italiano è col Questore di Milano, che è un po’ come lo spirito santo: nominato da tutti, visto da nessuno, pregato da tanti, anche da me e la mia passionale forza anticlericale che mi contraddistingue.

Abbiamo mantenuto un romanzo epistolare d’altri tempi, ogni anno gli scrivo: Signor Questore di Milano ,dai dammi ancora il permesso di vivere qui. A settembre saranno 17 anni di questa storia shakespeariana ( a volte dantesca per onorare gli autoctoni e per la questione del purgatorio) di amore-odio con la Polizia di Stato: il rinnovo del permesso di soggiorno.

Ansia, paura, stress, mal di testa, brividi un po’ come quando mi presi un’infezione stomacale per aver mangiato per strada a Città del Messico e finì al pronto soccorso a vomitare per tre giorni.

Ah… il mio stomaco ormai lombardizzato non ce la fece con la carne di sconosciuta provenienza. Tutto questo sento la notte prima di andare in commissariato nonostante la mia già rinomata parafilia dell’uomo in divisa.

Ma perché? Perché non riesco a togliermi questa stramaledetta sensazione di colpa, di criminale, di qualcosa andrà storto, adesso mi rinchiudono in un CPR, adesso mi arrestano… Ma se non ho fatto nulla! Eppure, la mia anima anarchica mi urla dal fondo delle mie convinzioni politiche: Beh, nemmeno il Pinelli aveva fatto nulla e vedi te come l’è andata a finire.

Quindi ripasso il mio bigliettino dove c’è scritto tutto: permesso di soggiorno, codice fiscale, fototessera, passaporto, buste paga, contratto di lavoro ecc. Due, tre, quattro volte, quello mio, quello di mio figlio, quello di mia figlia. Lei che ieri notte mi confessava un segreto all’orecchio:

Non voglio andare alla polizia. Mi fa paura. Mi fanno paura le pistole”

Un episodio simile l’ho già vissuto anni fa con mio figlio che mi ripeteva in continuazione di avere paura delle pistole. Mi aveva riempito di domande, cos’è sto documento, perché bisogna farlo, perché devo fare le impronte su un apparecchio strano e che comunque lui non aveva mica ancora imparato qual era l’indice. Lui adesso sta per andare in quarta elementare e questo rinnovo del permesso è diventato il giorno che salta la scuola.

Una decina di giorni fa uscivo con mia figlia a fare la spesa, appena aperto il portone che dà sulla Via Padova ci siamo viste in mezzo a tanti agenti di polizia che (forse) arrestavano un tipo tutto insanguinato e agitatissimo e altri due visibilmente ubriachi che litigavano per un monopattino elettrico. C’erano cinque volanti e io vedevo solo sangue e divise. Non siamo rimaste di certo a guardare, il tutto è durato pochi secondi ma da allora Ines ha paura della polizia. E’ successo per caso proprio sul nostro portone e non avevo modo di saperlo prima di aprire ma ho spiegato a mia figlia che quelle cose possono succedere, lei ha capito ma non vuole che succeda più. Adesso prima di aprire il portone appoggia l’orecchio per sentire caso mai ci sia qualche casino dall’altra parte.

E così avviati su Viale Monza con addosso le nostre facce migliori da onesti cittadini ci avviciniamo sempre di più al commissariato. Si intravede già la lunga fila di visi di pelle scura. Si sentono le voci di infiniti bambini probabilmente tutti quanti partoriti dalla stessa signora egiziana che sembra di avere settant’anni e invece non avrà nemmeno quaranta.

Ci mettiamo in coda, non chiedo nemmeno se stanno rispettando l’orario degli appuntamenti. Vedo che all’ingresso c’è un agente nuovo, sarà appena arrivato, si capisce dal modo così naif e disinvolto con cui si è azzardato ad uscire dalla porta con addirittura una bozza di sorriso sulle labbra. E’ giovane e bello, ha la pelle bianchissima o forse siamo noi che siamo nati un sacco abbronzati, sembra che una casalinga degli anni 50 lo abbia pettinato con la brillantina prima di mandarlo al lavoro. Esce lui, giovane poliziotto a dare giusto qualche informazione alla massa migrante in coda e viene immediatamente assalito, divorato di domande in un italiano inventato, mescolato con la “p” che è una “b” con accenti strani. Urla due cose e scappa ancora dentro, adesso ha una faccia diversa: si è spaventato, ma si dovrà fare una ragione, deve fare i conti con l’Italia di adesso che è fatta di gente nata altrove che esige sapere quando sarà pronto il permesso che deve andare in Peru-Egitto-Marocco-Messico.

Aspettiamo con molta pazienza e sotto una pioggia che ci regala una umidità che sembra di stare a Managua. Facciamo merenda, i bambini fanno i disegni, guardano il cellulare.

Si avvicina il nostro turno ma Ines dice no. Ha stabilito di non entrare, lei non vuole entrare. Decide così di fare la scenata più grande della storia contemporanea del XXI secolo, proprio lì davanti a due sbirri che ci guardano come dicendo : ma ce la fate?

Ines non vuole entrare e tira fuori tutto il melodramma che il suo passaporto magrebino gli ha donato dalla nascita insieme alle sue doti da attrice delle peggiori telenovelas messicane degli anni 90. Urla, piange, scalcia. Scene mai viste, mi coglie alla sprovvista, è una bambina educata, dolce, qui invece sembra una bestia posseduta da satana.

Mi sposto e faccio passare quelli dietro, Ines piange e dice che le pistole gli fanno paura e che i poliziotti urlano, a dire il vero intravedo in questo suo pianto disperato uno sfogo di cose poco belle vissute tutte negli ultimi tempi e la lascio piangere e mi viene in mente una cosa: noi un poliziotto buono lo conosciamo.

Quindi glielo dico, che questi poliziotti urlano perché c’è un sacco di gente e loro non hanno il microfono, sono mica cantanti, e lei sorride.

I poliziotti dell’altra volta dovevano sgridare quei signori che facevano baccano sulla nostra via, dovevano fare i duri, mica si mettono a fare le coccole, ogni tanto bisogna pure sgridare e lei sorride ancora.

Ci sono poliziotti che hanno capito bene il loro mestiere e lo fanno col cuore e non con le manganellate, che arrestano i cattivi per davvero e talvolta rischiano la propria vita per rendere più sicure le nostre. Mio figlio che è anche il mio più grande complice ha capito dove volevo arrivare.

E’ come il papà di B, Ines lo sai che lui aiutava i bambini!”

Io so che mia figlia ha sviluppato una certa simpatia per questo poliziotto buono papà di B, quindi si calma, ci pensa, ci riflette e mi chiede se lui è lì dentro, so che non è così, ma invito Ines a entrare e vedere se lo troviamo. Così entra, si guarda intorno si siede e mi chiede una caramella. Io smetto di sudare freddo e preparo i nostri documenti, ho tempo, gli agenti stanno facendo le impronte di una famiglia bella numerosa. Ho tempo per dare le caramelle ai figli, per bere l’acqua e per riconoscere quello sguardo che ha il poliziotto davanti a me dall’altra parte della vetrata. E’ la stessa espressione che hanno i miei colleghi in un ufficio comunale che sanno già che la nostra giornata sarà piena di no mi spiace non c’è posto letto, così per 8 ore di fila.

Penso: poverino magari lui sognava di combattere il crimine come Bruce Wayne vestito da pipistrello e invece eccolo lì, seduto dietro una scrivania vestito con quella divisa che non fa per niente onore alla nostra amata capitale della moda che ci prova a comunicare in napoletano con un egiziano che gli risponde in milanese.

E penso anche come la Polizia sia un’istituzione dello stato completamente fallita perché anch’io ho il terrore di entrare in un commissariato come mia figlia ,perché se vedo un poliziotto non mi sento sicura, mi sento impaurita e non solo per le ataviche angosce del mio essere latinoamericana.

Ma quando è successo? Quando si è perso il senso delle forze dell’ordine? Hanno mai avuto senso? Ma come è successo che le destre ci hanno rubato lo Stato, la Polizia, il Parlamento? Una cosa che era già nostra, quando ce l’hanno strappata?

Quando? Come? Perché?

Perche non mi basta aver conosciuto uno bravo ma soprattutto che non l’ho ancora trovato altrove.

Ci vorrebbero tanti altri compagni come il poliziotto buono papà di B per rendere dignitosa e nostra la Polizia. Magari fosse rimasto. E’ un pezzo che è uscito.

Certo da solo non avrebbe cambiato molto, forse nulla ma piutost che nient, l’è mei piutost.

Magari fosse rimasto.

 Problemi di memoria

Il primo film “serio” che ho guardato con mio figlio è stato I cento passi di Marco Tullio Giordana, non è stato semplice, abbiamo fermato il film più volte, mi chiedeva cose in continuazione. Non sapeva cosa fosse la mafia, non ne aveva mai sentito parlare. Ho deciso di guardarlo insieme a lui perché un giorno mentre giocava al parco con dei bambini più o meno della sua età uno di loro disse: io faccio il mafioso e tu mi insegui. Mio figlio non ha capito. Cosa era “un mafioso”. Perché doveva inseguirlo? Mio figlio chiese spiegazioni al bambino e lui ha risposto: i mafiosi sono i siciliani. Dovevo intervenire. I mafiosi non sono “i siciliani”. Che frase da brividi,triste, bugiarda.

Sembra quasi finta questa mia lotta stancabile di far diventare a tutti i costi la mia famiglia una famiglia italiana, con questo colore di pelle, con questi capelli neri, con questi nomi…Metto in modo apparentemente forzoso tutte queste storie di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, noi che potremmo starcene a mangiare cuscus tutti i giorni.

Invece è una scelta studiata, consapevole. Ho mollato la “mia” storia per adottare questa. A un certo punto ho deciso che il mio paese di origine era irrecuperabile, non c’era più nulla da fare. Io di sicuro non avrei combinato niente. Scoperto da giovanissima, nel primo semestre di università, studiavo giornalismo, figurarsi, giornalismo in Messico.

Ho deciso a un certo punto che il Messico era talmente marcio che bisognava lasciarlo implodere per farlo nascere ancora. Bisognava lasciar morire tutte e tutti, inclusa me. Col Messico non c’è più nulla da fare pensavo,e forse lo penso ancora. Mi porto dietro una colpa insopportabile per alcune mie decisioni, lasciare il paese di origine ma soprattutto il mio completo e consapevole disinteresse per il paese che mi ha visto nascere. E’ un peccato imperdonabile agli occhi dei miei connazionali, quasi quanto non essere cattolica.

Orfana da storie di un paese che non esiste, ho preso nel profondo della mia anima tutte le storie di questo paese ospitante. Ho letto decine di libri, mi sono fatta raccontare dagli amici, dai vecchi. Mi sono genuinamente innamorata dell’Italia, ho trovato un paese ricchissimo di compagni. Di gente che aveva fatto, tanto. Nel pubblico nel privato, ovunque. Ho abbracciato tutte queste storie di coraggio e le ho fatte mie, sono italianissima, non mi batte nessuno.

Ma in giornate come oggi 23 maggio mi scopro disincantata anche da questa acquisita italianità.

Non se lo ricorda nessuno. In radio ne parlano, si, ma è Radio popolare. Molti dei giovani che mi circondano non sanno chi è stato Giovanni Falcone. Giovani nati qui, da genitori che sono nati qui, da nonni che sono nati qui.

I pochi compagni che le ricordano queste date scelgono di fare finta di niente. Sono stanchi, non ce la fanno più, non vogliono farcela più. Penso a uno in particolare, compagno che una volta era sempre in movimento, che ha lasciato la vita per gli altri, non mollava mai. Ora stufo di tutto e di niente, completamente sprecato, un uomo così intelligente, colto, ardito. Adagiato in una nuvola di comoda borghesia.

Ma come fanno alcuni italiani a non vedere tutto quello che hanno, tutta la storia che hanno alle spalle, come fanno a non sapere, a far finta di non sapere, come fanno a non accorgersi, come fanno ad ignorare che ci sono invece quei “nuovi italiani” che adottano tutto ciò che l’Italia rappresenta.

Io vedo ancora speranza in questo paese, lo vedo avanti anni luce dal mio. Io so che qui si possono ancora fare delle cose, spero tanto di non perdermi mai. Qui mi sono ritrovata e qui voglio rimanere, e anche i miei figli lo faranno. Forse per questo mi sono pure tatuata il Duomo di Milano sul braccio.

Nella foto, mio figlio e mia figlia davanti al muro delle vittime della mafia fatta da Libera.

Problemi di memoria

Il primo film “serio” che ho guardato con mio figlio è stato I cento passi di Marco Tullio Giordana, non è stato semplice, abbiamo fermato il film più volte, mi chiedeva cose in continuazione. Non sapeva cosa fosse la mafia, non ne aveva mai sentito parlare. Ho deciso di guardarlo insieme a lui perché un giorno mentre giocava al parco con dei bambini più o meno della sua età uno di loro disse: io faccio il mafioso e tu mi insegui. Mio figlio non ha capito. Cosa era “un mafioso”. Perché doveva inseguirlo? Mio figlio chiese spiegazioni al bambino e lui ha risposto: i mafiosi sono i siciliani. Dovevo intervenire. I mafiosi non sono “i siciliani”. Che frase da brividi,triste, bugiarda.

Sembra quasi finta questa mia lotta stancabile di far diventare a tutti i costi la mia famiglia una famiglia italiana, con questo colore di pelle, con questi capelli neri, con questi nomi…Metto in modo apparentemente forzoso tutte queste storie di Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, noi che potremmo starcene a mangiare cuscus tutti i giorni.

Invece è una scelta studiata, consapevole. Ho mollato la “mia” storia per adottare questa. A un certo punto ho deciso che il mio paese di origine era irrecuperabile, non c’era più nulla da fare. Io di sicuro non avrei combinato niente. Scoperto da giovanissima, nel primo semestre di università, studiavo giornalismo, figurarsi, giornalismo in Messico.

Ho deciso a un certo punto che il Messico era talmente marcio che bisognava lasciarlo implodere per farlo nascere ancora. Bisognava lasciar morire tutte e tutti, inclusa me. Col Messico non c’è più nulla da fare pensavo,e forse lo penso ancora. Mi porto dietro una colpa insopportabile per alcune mie decisioni, lasciare il paese di origine ma soprattutto il mio completo e consapevole disinteresse per il paese che mi ha visto nascere. E’ un peccato imperdonabile agli occhi dei miei connazionali, quasi quanto non essere cattolica.

Orfana da storie di un paese che non esiste, ho preso nel profondo della mia anima tutte le storie di questo paese ospitante. Ho letto decine di libri, mi sono fatta raccontare dagli amici, dai vecchi. Mi sono genuinamente innamorata dell’Italia, ho trovato un paese ricchissimo di compagni. Di gente che aveva fatto, tanto. Nel pubblico nel privato, ovunque. Ho abbracciato tutte queste storie di coraggio e le ho fatte mie, sono italianissima, non mi batte nessuno.

Ma in giornate come oggi 23 maggio mi scopro disincantata anche da questa acquisita italianità.

Non se lo ricorda nessuno. In radio ne parlano, si, ma è Radio popolare. Molti dei giovani che mi circondano non sanno chi è stato Giovanni Falcone. Giovani nati qui, da genitori che sono nati qui, da nonni che sono nati qui.

I pochi compagni che le ricordano queste date scelgono di fare finta di niente. Sono stanchi, non ce la fanno più, non vogliono farcela più. Penso a uno in particolare, compagno che una volta era sempre in movimento, che ha lasciato la vita per gli altri, non mollava mai. Ora stufo di tutto e di niente, completamente sprecato, un uomo così intelligente, colto, ardito. Adagiato in una nuvola di comoda borghesia.

Ma come fanno alcuni italiani a non vedere tutto quello che hanno, tutta la storia che hanno alle spalle, come fanno a non sapere, a far finta di non sapere, come fanno a non accorgersi, come fanno ad ignorare che ci sono invece quei “nuovi italiani” che adottano tutto ciò che l’Italia rappresenta.

Io vedo ancora speranza in questo paese, lo vedo avanti anni luce dal mio. Io so che qui si possono ancora fare delle cose, spero tanto di non perdermi mai. Qui mi sono ritrovata e qui voglio rimanere, e anche i miei figli lo faranno. Forse per questo mi sono pure tatuata il Duomo di Milano sul braccio.

Nella foto, mio figlio e mia figlia davanti al muro delle vittime della mafia fatta da Libera.

Crónicas marcianas

 

 

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La última crónica.

Terrestres queridos, en estas semanas ya me andaba por escribirles y contarles muchos bonitos chismes. Pero me enfermé. Yo creo que me enfermé de cansancio aunque dicen que eso no es una enfermedad, pero si es difícil de curar. Sobretodo cuando estás encerrada en una micro casita y con dos críos, bueno tres con mi marido. Me dieron unos síntomas qué en otros tiempos nadie hubiera pelado pero como todavía andamos en eso de la mera epidemia mi doctor así de lejitos, pero bien lejitos me dijo que mejor me encierre. Fui señalada al  ATS qué es quien se encarga de la salud publica de la región y si me cachan dando la vuelta me darían una multota. Me va a tocar quedarme en mi casa hasta finales de mayo, però al fin que aquí estaba de todos modos.

Italia ya va a entrar en la bien famosa Fase dos que todos con ansia y desesperación esperábamos. Al final resulta que va a ser como la fase uno pero con los parques abiertos, que no es poco pero tampoco es lo que muchos esperábamos. Ya queremos nuestra vida normal, como la dejamos pendiente antes de que este cochino virus viniera a arruinarnos nuestros planes.

Yo dejé pendientes en el trabajo, en el banco, en la escuela. En mi casa nos quedamos a mitad del cambio de muebles qué con tanto juguete y tantos libros ya no sabíamos ni donde meter tanta chunche. Dejé a medias mi inscripción a la escuela de escritura creativa, y mis planes del libro que tanto quisiera escribir.

Quería hacer tantas y tantas cosas y mira, paso los días a darles de comer a estos críos sin fondo y a lavar platos porque también lo de comprar la lavavajillas se quedó pendiente.

Se me quedó en el aire suspendido mi ciclo de conferencias de Luchas de resistencia en el mundo . Se me quedó pendiente mi clase de periodismo en Napoles. Y así podría seguirle. Todas cosas que ojalá un día las pueda hacer sobretodo comprar la lavavajillas.

El 4 de mayo van a volver a abrir muchas fábricas, estudios profesionales, los parques aunque para ir no podemos estar en bola ni usar las areas para niños. El país se va abriendo paulatinamente y con mucho trabajo. En Lombardia los contagios y las muertes siguen, aunque sí han bajado un poco.

Finalmente se empiezan a escuchar propuestas para ver que hacer con los hijos de sus madres. Me acaba de llegar un cuestionario de parte del Ayuntamiento y de los padres representantes de las familias de Milán para saber cómo organizar en la mejor manera la “posible” apertura de los servicios a la infancia 0-6 años, o sea el kinder. Las familias seguimos haciendo presión para que nos hagan caso y respeten los derechos de los niños y niñas qué viven en el país. En Toscana y Reggio Emilia ya hay planes mucho más concretos en ese sentido.

Y así, poco a poco Italia intenta alzarse en pie después de un golpe tan duro. Aunque va a estar muy cañón y seguramente será lentísimo. Muchas empresas no volverán a abrir, mucha gente perderá por siempre su trabajo. Las consecuencias de este mentado bichito serán muy fuertes incluso para un país rico como Italia.

En la foto nuestro cartel del 25 de abril, día en que festejamos la Liberación del nazi fascismo en Italia.

Aquí seguimos esperando la segunda liberación…

Cittadino del mondo, partigiano milanese

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Foto: Valentina Gabrieli

Caro Ismail,

Questo 25 aprile non possiamo andare alla ricerca del partigiano vero come l’anno scorso. Tu sai perchè, sono settimane che sei rinchiuso come tutti in questa città, in questo paese, nel mondo.

Questo 25 aprile canteremo Bella ciao dal balcone dello Zio Hayman, appenderemo il nostro cartellone “Buona festa della Liberazione” dal nostro balcone.

Ma volevo raccontarti di tutti i 25 aprile che ho passato qui in Italia.

Il primo me lo ricordo benissimo, mi portò la mia carissima amica Irene, allora vivevamo insieme in una casa in Porta Ticinese che a me piaceva moltissimo perchè era in centro e passavo spesso da Piazza del Duomo, che a parte i piccioni, a me ogni volta piace di più e ora che scrivo mi viene una terribile nostalgia, sono mesi che non la vedo. Era una giornata grigia e piovigginava, abbiamo fatto un giro non molto lungo e Irene mi spiegava tante cose che io non sapevo perchè ero appena arrivata da un paese molto lontano dove il 25 aprile non si festeggia.

Ho passato diversi 25 aprile grigi e piovosi ma erano sempre una grande festa. Era festa la preparazione, il corteo e poi il raduno finale con tutti gli amici che magari vedevi solo quel giorno lì.

Ogni anno che passava qualcuno era sposato, altre incinta, altri con fidanzati diversi, altri uguali, altri non c’erano più . Era la giornata dei ricordi perchè alla fine della grande manifestazione c’era sempre una festa in cui mangiavamo e bevevamo insieme fino a molto tardi anche se il giorno dopo dovevamo lavorare.

La foto che accompagna queste parole è del tuo primo 25 aprile con la tua tutina che Edda ti ha portato dal Sudafrica quando era appena morto Nelson Mandela, quello del film dell’altra volta, ti ricordi?

Il tuo primo 25 aprile è stato bellissimo, era una giornata calda e soleggiata e ci siamo trovati tutti quanti alle porte del parco di Palestro, alcuni non ti conoscevano ancora e ti coccolavano tutti. Ti facevano i complimenti per essere presente, per essere un bravo compagno, col tuo biberon di acqua fresca e le tue merendine. Abbiamo fatto turni per prenderti in braccio per tutto il corteo, non ti sei stancato mai e siamo arrivati fino alla fine.

Io penso che questi giorni di resistenza fisica e mentale che le condizioni attuali ci impongono ti serviranno per capire al meno un pò tutto quello che hanno sofferto i veri Partigiani come li chiami tu. Anche se detto fra noi, le nostre “sofferenze” di oggi son ben lontane da quelle di allora. I partigiani veri non avevano il tablet caro Ismail, ne la didattica a distanza, non c’era Netflix e tantissimi bambini non potevano giocare nemmeno un po’ in cortile come te. Quello che potremmo fare invece, è lottare per un paese libero proprio come fecero loro ! Per un paese dove tutte e tutti possano avere una buona Istruzione, dove abbiano tutti accesso alla cultura e soprattutto un paese dove ogni singola persona ( nata qui o altrove poco importa) abbiano diritto alle cure e agli ospedali pubblici.

Lo sai che tu, mio cittadino del mondo, partigiano milanese sei nato in un ospedale pubblico? Sei nato al Buzzi e io oltre alla grandissima fatica di farti nascere non ho pagato nemmeno un centesimo. Non ho pagato perchè le persone buone che ci tengono veramente al nostro paese pagano le tasse, le pago anche io! Con tutti questi soldini gli ospedali funzionano e fanno nascere delle creature come te e tua sorella. La notte in cui sei nato io e papà avevamo solo 20 euro in tasca, quindi il papà mi ha detto “guarda che devi essere sicura di partorire altrimenti no ho più soldi per prendere un altro taxi” Ma io ero sicura e non vedevo l’ora di vederti e di cantarti una canzone . Tu sei nato alle 7 del mattino e ti hanno messo in un lettino speciale per riscaldarti per quasi tutta la giornata ma quando la sera tardi ti hanno riportato da me, la mamma che era nella stessa stanza era ormai andata anche lei a partorire, quindi abbiamo passato la nostra prima sera insieme, da soli.

Ti ho preso in braccio per cullarti, tu mi hai guardato con quei occhioni enormi bellissimi che hai e io ti ho cantato:

Fischia il vento e infuria la bufera scarpe rotte e pur bisogna andar…

Bisogna andar mio piccolo partigiano, bisogna andar.

Crónicas marcianas

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Día 25

 

Y bueno después de tanto sufrimiento, tanta muerte, tanta desesperación…

¿Qué estamos haciendo para salir de esto? Pues la Región Lombardia no mucho, en lo que si le estan echando hartas ganas es en salir en todos los programas de tele y de radio justificando el porqué transfirieron enfermos de covid en las casas de reposo sin nisiquiera tenerlos en aislamiento. ¿Porqué tan tremenda ideota?  le preguntaron a Gallera     ( asesor de la Región) : porque no había lugar en los hospitales, respondió. Y ¿porqué no había lugar en los hospitales queridísimos terrestres? ah eso es un chisme muy marciano. Dejen les cuento, fíjense que en 1998 había 1,381 estructuras hospitalarias  de las cuales más del 63% eran públicas. Los lugares disponibles en los hospitales públicos eran siempre en 1998 de 311 mil, en el 2007 de 225 mil y en el 2017  eran solamente 191 mil. Recordemos que no todos estos son de terapia intensiva sino generales. Ya entendieron porque “no había lugar en los hospitales”

En los ultimos 25 años gobernantes de derecha y de izquierda no han hecho otra cosa que recortarle al sistema publico nacional de salud. Chale.

Y además dejando un vacío cósmico que prontamente el sector privado esta ansioso de llenar, pagando, obvio. Como la historia que escuché la otra mañana en un programa de radio. Un señor con la necesidad de hacer el test del covid para saber si puede regresar a trabajar, ya con la salud muy delicada pues había sufrido dos infartos recientemente. Aquí no te hacen la prueba. No en el sistema publico. El señor se tuvo que dirigir al sector privado que se lo hizo con mucho gusto y con casi 400 euros, por si no lo sabían, la producción del test del covid no cuesta mas de 20 euros. Y así mucha gente va a empezar a hacerlo, a pedirlo, a pagarlo. Los que pueden porque 400 euros son un poco menos de lo que yo gano al mes. Hay gente que ni eso.

En estos días salieron todos los trapitos al sol de esta Región que es de las más ricas y dizque eficientes de toda Italia. A todo el mundo le caemos mal, por creídos y por payasos, y tienen razon pues además de la comida pinche el clima horrible y lo fresitas que somos los lombardos ya caímos gordito echándole en cara al país que somos el 30% del PIL , ya chole.

Riqueza hay, pero muy mal distribuida y lo de la eficiencia ya quedo muy claro que era una fama infundada. Los voluntarios del Centro social Lambretta reportan centenares de llamadas diarias para pedir ayuda con paquetes de alimentos pues sencillamente la gente ya no tiene que comer.

Ojalá que aprendamos ( si, yo me incluyo tambien)durante toda esta tragedia horrible a ser humildes a dejar de ver de arriba para abajo a las demás regiones que por cierto uno de los hospitales más eficientes y excelentes de Italia en esta emergencia fue el de Napoles o sea un hospital PUBLICO del sur, tómala.

Ojala que nos demos cuenta que la salud no puede ser un lujo para ricos y que ya va siendo hora de ir expropriando todas esas clínicas mamonas carísimas que pululan en Milán, que más que curar la salud de sus ciudadanos ganan más lana quitándole las lonjas a las ricas.