Anche se può sembrare inaspettato, la relazione più lunga che abbia mai avuto con un uomo italiano è col Questore di Milano, che è un po’ come lo spirito santo: nominato da tutti, visto da nessuno, pregato da tanti, anche da me e la mia passionale forza anticlericale che mi contraddistingue.
Abbiamo mantenuto un romanzo epistolare d’altri tempi, ogni anno gli scrivo: Signor Questore di Milano ,dai dammi ancora il permesso di vivere qui. A settembre saranno 17 anni di questa storia shakespeariana ( a volte dantesca per onorare gli autoctoni e per la questione del purgatorio) di amore-odio con la Polizia di Stato: il rinnovo del permesso di soggiorno.
Ansia, paura, stress, mal di testa, brividi un po’ come quando mi presi un’infezione stomacale per aver mangiato per strada a Città del Messico e finì al pronto soccorso a vomitare per tre giorni.
Ah… il mio stomaco ormai lombardizzato non ce la fece con la carne di sconosciuta provenienza. Tutto questo sento la notte prima di andare in commissariato nonostante la mia già rinomata parafilia dell’uomo in divisa.
Ma perché? Perché non riesco a togliermi questa stramaledetta sensazione di colpa, di criminale, di qualcosa andrà storto, adesso mi rinchiudono in un CPR, adesso mi arrestano… Ma se non ho fatto nulla! Eppure, la mia anima anarchica mi urla dal fondo delle mie convinzioni politiche: Beh, nemmeno il Pinelli aveva fatto nulla e vedi te come l’è andata a finire.
Quindi ripasso il mio bigliettino dove c’è scritto tutto: permesso di soggiorno, codice fiscale, fototessera, passaporto, buste paga, contratto di lavoro ecc. Due, tre, quattro volte, quello mio, quello di mio figlio, quello di mia figlia. Lei che ieri notte mi confessava un segreto all’orecchio:
“Non voglio andare alla polizia. Mi fa paura. Mi fanno paura le pistole”
Un episodio simile l’ho già vissuto anni fa con mio figlio che mi ripeteva in continuazione di avere paura delle pistole. Mi aveva riempito di domande, cos’è sto documento, perché bisogna farlo, perché devo fare le impronte su un apparecchio strano e che comunque lui non aveva mica ancora imparato qual era l’indice. Lui adesso sta per andare in quarta elementare e questo rinnovo del permesso è diventato il giorno che salta la scuola.
Una decina di giorni fa uscivo con mia figlia a fare la spesa, appena aperto il portone che dà sulla Via Padova ci siamo viste in mezzo a tanti agenti di polizia che (forse) arrestavano un tipo tutto insanguinato e agitatissimo e altri due visibilmente ubriachi che litigavano per un monopattino elettrico. C’erano cinque volanti e io vedevo solo sangue e divise. Non siamo rimaste di certo a guardare, il tutto è durato pochi secondi ma da allora Ines ha paura della polizia. E’ successo per caso proprio sul nostro portone e non avevo modo di saperlo prima di aprire ma ho spiegato a mia figlia che quelle cose possono succedere, lei ha capito ma non vuole che succeda più. Adesso prima di aprire il portone appoggia l’orecchio per sentire caso mai ci sia qualche casino dall’altra parte.
E così avviati su Viale Monza con addosso le nostre facce migliori da onesti cittadini ci avviciniamo sempre di più al commissariato. Si intravede già la lunga fila di visi di pelle scura. Si sentono le voci di infiniti bambini probabilmente tutti quanti partoriti dalla stessa signora egiziana che sembra di avere settant’anni e invece non avrà nemmeno quaranta.
Ci mettiamo in coda, non chiedo nemmeno se stanno rispettando l’orario degli appuntamenti. Vedo che all’ingresso c’è un agente nuovo, sarà appena arrivato, si capisce dal modo così naif e disinvolto con cui si è azzardato ad uscire dalla porta con addirittura una bozza di sorriso sulle labbra. E’ giovane e bello, ha la pelle bianchissima o forse siamo noi che siamo nati un sacco abbronzati, sembra che una casalinga degli anni 50 lo abbia pettinato con la brillantina prima di mandarlo al lavoro. Esce lui, giovane poliziotto a dare giusto qualche informazione alla massa migrante in coda e viene immediatamente assalito, divorato di domande in un italiano inventato, mescolato con la “p” che è una “b” con accenti strani. Urla due cose e scappa ancora dentro, adesso ha una faccia diversa: si è spaventato, ma si dovrà fare una ragione, deve fare i conti con l’Italia di adesso che è fatta di gente nata altrove che esige sapere quando sarà pronto il permesso che deve andare in Peru-Egitto-Marocco-Messico.
Aspettiamo con molta pazienza e sotto una pioggia che ci regala una umidità che sembra di stare a Managua. Facciamo merenda, i bambini fanno i disegni, guardano il cellulare.
Si avvicina il nostro turno ma Ines dice no. Ha stabilito di non entrare, lei non vuole entrare. Decide così di fare la scenata più grande della storia contemporanea del XXI secolo, proprio lì davanti a due sbirri che ci guardano come dicendo : ma ce la fate?
Ines non vuole entrare e tira fuori tutto il melodramma che il suo passaporto magrebino gli ha donato dalla nascita insieme alle sue doti da attrice delle peggiori telenovelas messicane degli anni 90. Urla, piange, scalcia. Scene mai viste, mi coglie alla sprovvista, è una bambina educata, dolce, qui invece sembra una bestia posseduta da satana.
Mi sposto e faccio passare quelli dietro, Ines piange e dice che le pistole gli fanno paura e che i poliziotti urlano, a dire il vero intravedo in questo suo pianto disperato uno sfogo di cose poco belle vissute tutte negli ultimi tempi e la lascio piangere e mi viene in mente una cosa: noi un poliziotto buono lo conosciamo.
Quindi glielo dico, che questi poliziotti urlano perché c’è un sacco di gente e loro non hanno il microfono, sono mica cantanti, e lei sorride.
I poliziotti dell’altra volta dovevano sgridare quei signori che facevano baccano sulla nostra via, dovevano fare i duri, mica si mettono a fare le coccole, ogni tanto bisogna pure sgridare e lei sorride ancora.
Ci sono poliziotti che hanno capito bene il loro mestiere e lo fanno col cuore e non con le manganellate, che arrestano i cattivi per davvero e talvolta rischiano la propria vita per rendere più sicure le nostre. Mio figlio che è anche il mio più grande complice ha capito dove volevo arrivare.
“E’ come il papà di B, Ines lo sai che lui aiutava i bambini!”
Io so che mia figlia ha sviluppato una certa simpatia per questo poliziotto buono papà di B, quindi si calma, ci pensa, ci riflette e mi chiede se lui è lì dentro, so che non è così, ma invito Ines a entrare e vedere se lo troviamo. Così entra, si guarda intorno si siede e mi chiede una caramella. Io smetto di sudare freddo e preparo i nostri documenti, ho tempo, gli agenti stanno facendo le impronte di una famiglia bella numerosa. Ho tempo per dare le caramelle ai figli, per bere l’acqua e per riconoscere quello sguardo che ha il poliziotto davanti a me dall’altra parte della vetrata. E’ la stessa espressione che hanno i miei colleghi in un ufficio comunale che sanno già che la nostra giornata sarà piena di no mi spiace non c’è posto letto, così per 8 ore di fila.
Penso: poverino magari lui sognava di combattere il crimine come Bruce Wayne vestito da pipistrello e invece eccolo lì, seduto dietro una scrivania vestito con quella divisa che non fa per niente onore alla nostra amata capitale della moda che ci prova a comunicare in napoletano con un egiziano che gli risponde in milanese.
E penso anche come la Polizia sia un’istituzione dello stato completamente fallita perché anch’io ho il terrore di entrare in un commissariato come mia figlia ,perché se vedo un poliziotto non mi sento sicura, mi sento impaurita e non solo per le ataviche angosce del mio essere latinoamericana.
Ma quando è successo? Quando si è perso il senso delle forze dell’ordine? Hanno mai avuto senso? Ma come è successo che le destre ci hanno rubato lo Stato, la Polizia, il Parlamento? Una cosa che era già nostra, quando ce l’hanno strappata?
Quando? Come? Perché?
Perche non mi basta aver conosciuto uno bravo ma soprattutto che non l’ho ancora trovato altrove.
Ci vorrebbero tanti altri compagni come il poliziotto buono papà di B per rendere dignitosa e nostra la Polizia. Magari fosse rimasto. E’ un pezzo che è uscito.
Certo da solo non avrebbe cambiato molto, forse nulla ma piutost che nient, l’è mei piutost.
Magari fosse rimasto.